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La vigna del Ventaglio a San Leucio

Nel tratto del cammino, che intraprenderà per portarsi in San Leucio, incontrerà varii punti di vedute, che non hanno uguali, fra gli altri quello della Vigna detta del Ventaglio dalla forma che presenta; e quello dell’ameno Casinetto reale detto di S. Silvestro, adorno di pensili giardini dalla parte meridionale, e di una spaziosa vigna dalla parte settentrionale

Ferdinando Patturelli

L’Italia meridionale è un’area antica ricchissima di vitigni autoctoni, grazie a terroir diversi, clima e tradizioni produttive ben distinte che affondano le loro radici nella storia della Magna Grecia prima e nel mondo romano poi. 

Anche i Borbone delle due Sicilie furono estimatori dei vitigni del regno, tanto da impiantare sulla collina di San Leucio quella che sarà chiamata la Vigna del Ventaglio.  

A raccontare quella che è la più bella tra le Reali delizie borboniche, diventata il simbolo stesso del vino Pallagrello, è l’architetto Ferdinando Patturelli che, tra il 1797 e il 1801, collaborò con Francesco Collecini alla costruzione del Real Casino di San Silvestro.  

Si può dire che il progetto della Vigna del Ventaglio, già realizzata intorno al 1770-75, fosse quello di racchiudere tutto il Regno in una vigna. Non sappiamo se sia stato frutto di una “visione” del giovane Ferdinando o se egli abbia solo portato a termine un’idea del padre Carlo, che per primo aveva investito su San Leucio acquistando il terreno, circa 3 ettari, nel 1759, proprio per piantarci una vigna, come racconta il Commendator Sancio, amministratore della tenuta: “La natura, l’indole, e la posizione declive del terreno rendevano questo sito opportunissimo per una vigna”. 

Luogo di pace e di delizia, Ferdinando IV vi si recava spesso a passeggiare, come raccontava a Maria Carolina nel 1789 anche dopo le feste con i suoi leuciani: “dalle due e mezza alle tre e mezza stiedimo vedendo ballare i commensali e poi andammo a fare una passeggiata per i giardini, e di là fino al ventaglio”.  

La Vigna del Ventaglio era una vigna particolarissima non solo per la forma, a ventaglio appunto (con dieci raggi ossia dieci filari), ma per l’idea che sottintendeva, ossia la creazione di un piccolo campo ampelografico, con le migliori varietà di uve del Regno.  

La componente estetica aveva un ruolo fondamentale e filosofico, centrale nel progetto di un territorio funzionale e nel contempo bello, dove le attività industriali e agricole si armonizzassero con il paesaggio naturale circostante.  

Le varietà erano Lipari rosso (uve Corinto), Delfino bianco (Malvasia, dalla Puglia), Procopio (forse Greco di Bianco da S. Procopio, Reggio Calabria). Il quarto e il quinto raggio comprendevano il Piedimonte rosso e bianco (Pallagrello nero e Pallagrello bianco). C’erano poi il Lipari bianco (Malvasia delle Lipari), il Siracusa bianco (Moscato), il Terranova (Gaglioppo o Greco nero), il Corigliano rosso (Magliocco) e il Siracusa rosso (Nero d’Avola).  

Nel Ventaglio si producevano in tutto 3.500 litri di vino, la resa in uve era infatti bassissima, poco più di 20 quintali a ettaro, la qualità altissima. Le vigne erano ad alberello e la vinificazione e la conservazione avveniva coi metodi “toscani o di Francia”. Le uniche varietà della Campania erano il Piedimonte bianco e il Piedimonte rosso, ossia il Pallagrello bianco e il Pallagrello nero.  

Proprio queste due ultime varietà, dopo la terribile calamità della fillossera tra fine ‘800 e inizio ‘900, all’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso sono state riprese e valorizzate dagli avvocati Mancini e Barletta, che hanno creduto in questo vitigno autoctono riportandolo con successo alla ribalta e all’attenzione dei numerosi operatori ed amanti del settore. 

MANUELA PIANCASTELLI

Giornalista, scrittrice e vignaiola

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